di Chiara Boscaro e Marco Di Stefano
Una cosa è certa. Ovunque ti giri, sei già dentro un film. C’è il tunnel di Men in Black, c’è quello scorcio del Ponte di Brooklyn che hanno usato in tanti, c’è l’albergo di Mamma ho perso l’aereo, c’è Central Park, e Central Park c’è un po’ in tutti i film. “Cazzo. C’è l’entrata della Grand Central Station, dove Bruce Banner si trasforma in Hulk mentre tira un cazzotto sul muso a un Chitauro gigante. È così che inizia la battaglia finale del primo Avengers!”. Se ci seguite da un po’ potete immaginare chi ha detto questa frase mentre tremava come un bambino…
(fine del racconto nerd e inizio del racconto epico)
I confratelli Marco Di Stefano e Chiara Boscaro sono nella Grande Mela per ricevere il Mario Fratti Award 2018 all’Istituto Italiano di Cultura. Il Mario Fratti Award è un premio di drammaturgia organizzato annualmente da In Scena!, festival di teatro italiano a New York diretto con professionalità e tenacia da Laura Caparrotti.
Chiara e Marco sono pronti per ritirare l’ambito premio, ma dentro di loro covano un altro obiettivo: scoprire i segreti di quella che viene definita LA CITTÀ con tutte le maiuscole. Hanno studiato (Chiara) e combattuto il jet lag a colpi di melatonina (Marco), ora sono pronti a fare i turisti. Non portano sandali col calzino, ma pare che il passo lento e vacanziero li svenda subito, nel ritmo forsennato dei newyorkers.
Il testo che hanno scritto, quello con cui hanno vinto il Premio Mario Fratti, parla proprio di città. Si intitola “La Città che Sale”, e guarda caso, “La Città che Sale” originale, quella di Boccioni, sta proprio qui, al MoMA. Coincidenza? Noi pensiamo di no…
I consigli degli amici pre-partenza sono stati numerosi e circostanziati: pare che tutti siano già stati qui e abbiano liste infinite di imperdibili. Musei, esperienze, scorci, bar, persino il cibo, che non è che gli americani siano proprio famosi per il cibo. Ma questa mica è l’America, questa è una città stato figlia del mondo, un frullatore che a ogni fermata di metropolitana ci catapulta in inedite dimensioni parallele.
La sensazione condivisa è che una settimana non basterà mai.
Ma Chiara e Marco non sono due turisti qualsiasi…
(fine del racconto epico. Ora si cazzeggia un po’ in stile Confraternita)
In programma ci sono due spettacoli: il geniale musical The Book of Mormon di Trey Parker, Matt Stone (i creatori di South Park e Team America) e Robert Lopez; e il – da tutti consigliatissimo – Sleep no more dei Punchndrunk al McKrittick Hotel, che ci è piaciuto un po’ meno, nonostante l’impressionante apparato scenografico che coinvolge tutto il palazzo e che dà la possibilità al pubblico di girare liberamente per 3 ore seguendo i personaggi o la trama che preferisce (o semplicemente affidandosi al caso).
Ah, tornando a “The Book of Mormon”… NON PERDETEVELO ASSOLUTAMENTE.
È in scena a Broadway, all’Eugene O’Neill Theatre. Ci fa ancora male la mascella dal ridere. Un ridere intelligente e dissacrante.
Vi abbiamo già detto di non perdervelo?
Il resto dell’itinerario prevede il traghetto per Staten Island (gratuito e con vista sulla Statua della Libertà), un giretto a downtown e midtown con il naso all’insu, Chinatown (che una volta era Little Italy), Central Park (e Strawberry Fields Forever e Angels in America e una serie di artisti di strada bravissimi), i Musei del Museum Mile, la Harlem dei Gospel Bar e la Dumbo con gli sposini a farsi foto dappertutto. Tra tutto ci piace molto la Highline (parco ricavato sui binari in disuso di un tram sopraelevato che attraversava Chelsea), l’Orto Botanico di Brooklyn (che a inizio maggio si riempie di ciliegi in fiore, per sapere il giorno preciso basta seguire le news sul sito, aggiornate in tempo reale con tutte le fioriture) e Coney Island, storico parco divertimenti ricavato praticamente in spiaggia. Sì, New York ha la spiaggia, e se ci sono 30 gradi, basta un’oretta di metropolitana da Manhattan. A proposito di metropolitana, meglio stare attenti ai cartelli e agli avvisi audio: i lavori di mantenimento e ristrutturazione sono sempre dietro l’angolo, e bisogna essere lesti nell’escogitare tragitti alternativi.
(basta cazzeggio. Ora la parte preferita da chi legge questo blog)
Va bene. Si parli anche di cibo, anche se di sacrilegio si tratta. Per l’hamburger, consigliato Shatzie all’Upper West Side, tra la 103esima e la Broadway (ottimo anche il pastrami) e il Burger Joint nascosto dentro l’hotel di lusso Le Park Meridien, vicino a Times Square. Per l’hot dog consigliamo Nathan’s a Coney Island (va beh, Nathan’s lo consigliano tutti…), dove ogni 4 luglio si festeggia l’indipendenza con una gara a chi ingurgita più panini.
Rimanendo sul filone panini (ah ah, filone, panini… bravo Marco, che gioco di parole di merda…) abbiamo sperimentato anche il panino con l’astice di Luke’s Lobster a Dumbo. Al tramonto, con una bella birra fresca, è davvero la pace dei sensi.
Un’ottima soluzione per risparmiare tagliando un pasto è il brunch, dove due uova (sopra qualsiasi pietanza, dalla macedonia alle polpette fritte) non si negano a nessuno. Noi abbiamo molto amato Metro Diner. È uno degli ultimi diner di New York, non perdetevelo.
Le patate fritte spadroneggiano nei menù, ma non è impossibile mangiare “sano”, destreggiandosi tra migliaia di baracchini, multietnici vari e l’onnipresente fumo di griglia (oltre a quello che, ora possiamo confermarlo, davvero esce dai tombini).
(ecco il finale… dove si deduce che siamo ancora frastornati da NYC)
Che altro si può dire? È una città che non dorme mai, probabilmente è davvero il centro del mondo occidentale, ma che è difficile apprezzare come turisti (almeno per Marco). New York è un posto dove bisognerebbe fermarsi dei mesi, sedersi al bancone di un bar e capire come farsi trascinare in qualcosa di entusiasmante che sicuramente sta capitando a due passi, nascosto nel retro di una bottega o nella cantina di una chiesa.
Perché, nonostante la grandezza e la frenesia, New York vive ancora di relazioni di prossimità, vita nei quartieri e un grande senso di appartenenza a quello che si può definire un esempio di melting pot unico nel suo genere. Una vera e propria “Città che sale”.
(a proposito, il quadro di Boccioni visto dal vivo è una bomba. Vale da solo l’ingresso al MoMA)
In attesa di tornare a New York vorremmo ringraziare tutto lo Staff di In Scena!: Laura Caparrotti, Donatella Codonesu e Carlotta Brentan che ha tradotto “La Città che sale.”, Jenny Tibbels che ne ha diretto la mise en espace, gli splendidi attori che lo hanno interpretato, l’Istituto Italiano di Cultura, la giuria del premio e tutti gli artisti del festival. E in ultimo il maestro Mario Fratti per la presenza e per le belle parole.