LA BOTTEGA DEL CAFFÈ
da Carlo Goldoni
di Chiara Boscaro e Marco Di Stefano
drammaturgia Chiara Boscaro
regia Marco Di Stefano
con
Valeria Sara Costantin
Marco Pezza
Andrea Pinna
Domenico Pugliares
Valentina Scuderi
consulenza musicale Lorenzo Brufatto
assistente alla regia Cristina Campochiaro
un progetto La Confraternita del Chianti
una produzione Teatro della Cooperativa
in collaborazione con Associazione K / Teatro In-folio Residenza Carte Vive
selezione Ritorno al Futuro 2015 – Associazione ETRE / Residenza IDRA / C.T.B. Centro Teatrale Bresciano
Scritta nel 1750, la commedia affronta uno dei “vizi” maggiormente in voga nella, ormai in declino, Repubblica di Venezia: il gioco d’azzardo.
Sono passati 260 anni e il gioco d’azzardo rimane, nonostante il tempo, una delle dipendenze più pericolose. Quella del gioco d’azzardo è la quinta industria in Italia. La spesa pro capite annua per il gioco è la prima al mondo. Circa 700.000 persone sono affette da GAP (gioco d’azzardo patologico).
La storia è quella di Eugenio, giovane che passa intere notti perdendo tutti i suoi averi (averi della moglie, in effetti) e di Ridolfo, il proprietario de “la bottega del caffè” che fa di tutto per proteggere Eugenio.
Attorno a loro, garzoni, mogli, maldicenti, truffatori e donne misteriose rendono la vicenda ricca di colpi di scena, equivoci, battute sagaci e svelamenti.
E allora basta trasportare la vicenda nella nostra società, oggi. Dove il mondo digitale dei video poker ha sostituito i tavoli delle fumose sale da gioco. Venezia? Milano? Roma? Napoli? Non conta. Non servono allestimenti d’epoca, scenografie fastose, macchine sceniche barocche. Qui conta solo la sala giochi, il luogo dove Eugenio passa tutta la sua giornata.
Vogliamo portare sulla scena tutte la tragica ironia dell’autore, il suo umorismo nero, il suo sguardo disincantato. Ma come lui lasciare sempre una porta aperta alla speranza, alla possibilità di un riscatto.
“Guardate le miserie di questi personaggi e ridetene. E soprattutto fate sì che un giorno non si abbia a rider di voi.”
(Carlo Goldoni)
Rassegna stampa
“Supera la prova Goldoni La Confraternita del Chianti, che in prima milanese porta al Teatro della Cooperativa uno dei capolavori del celebre drammaturgo veneziano, “La bottega del caffè”. Il merito? Aver attualizzato le dinamiche settecentesche in un’epoca che assomiglia al 99% alla nostra ma che non lo è fino in fondo – evitando così il peccato (mortale) di sociologizzare la pièce. Il resto lo fanno la freschezza e l’affiatamento degli attori ben diretti dalla regia di Marco Di Stefano che sfrutta i limiti della messa in scena […] per deflagrare in mezzo al pubblico, ricreando così la famosa piazza con bottega del caffè e annesso barbiere in cui si tiene la vicenda.”
(Michele Weiss, La Stampa)
“La drammaturgia di Chiara Boscaro e Marco Di Stefano lavora in sottrazione, lasciando agire gli ingranaggi del meccanismo comico goldoniano, rimuovendo la polvere, limando il superfluo. In questo movimento a togliere, persino il protagonista, l’indebitato mercante di stoffe Eugenio, sparisce dalla scena: resta al centro del sistema dei personaggi come presenza assente, assorbito nell’altrove della dipendenza.I cinque attori riempiono il palco con energia, entrano ed escono di scena con un timing a orologeria, giocano con accenti regionali e stereotipi [..]. La Confraternita del Chianti – altrove impegnata in progetti complessi e politicamente impegnati come Pentateuco – si concede in questo caso una pièce ritmata e godibile, fresca e mai sguaiata: per ricordarsi che la macchina goldoniana, quando si è abili a rimetterla in moto, funziona ancora alla perfezione.”
(Maddalena Giovannelli, Hystrio – www.milanoinscena.it)
“Marco Di Stefano non è da meno e firma una regia agile ed elastica. La chiave del suo lavoro sta nell’uso dello spazio scenico. La Bottega del Caffè si svolge infatti in un tipico campiello veneziano. Per riprodurre questo effetto, il giovane regista spezza il rapporto di frontalità fra pubblico e palcoscenico. Lo fa sia accogliendo in scena sei malcapitati spettatori, sia offrendo alla platea una “visione a 360 gradi”, spostando spesso l’azione dei personaggi lungo i corridoi laterali o il fondo della sala. L’impressione è quella di essere in una piazza e di partecipare collettivamente a una tragicommedia privata. Non è un caso allora che una vicenda come questa, piena di colpi di scena, equivoci e svelamenti sia l’occasione per La Confraternita del Chianti per sfruttare, mentre li addita, tutti i meccanismi teatrali. […] Meritati dunque gli applausi.”
(Francesca Curto e Valentina Sorte, www.paneacquaculture.net)
“Quello dei confratelli è un affascinante metateatro, in cui cade ogni convenzione scenica, dall’abbattimento della quarta parete alle didascalie delle note di regia originali, in un gioco linguistico dove perfino gli “a parte”, tradizionalmente ignorati, si ritagliano il proprio spazio nello scambio di battute. Efficace la scelta di giocare con gli accenti e caratterizzare ogni personaggio con la propria cadenza regionale, uno dei tanti artifici che garantisce la continua forza comica del testo, che non risparmia tuttavia un retrogusto più amaro perché, come dice Ridolfo in chiusura, abbiamo riso di questi personaggi ma, da ora in poi, fate che non si abbia a ridere di voi.”
(Valeria Nicoletti, www.klpteatro.it)
“Il teatro, tempio del cosiddetto “play” diventa quasi il luogo ideale per mettere a tema la malattia del gioco, irriderla (con rispetto) e smascherarla. Tutti gli interpreti sono bravissimi nel mettere in atto il meccanismo di metateatro (con una sala sfruttata alla perfezione in ogni angolo) e nel rispettare i tempi della commedia destreggiandosi anche con le cadenze regionali senza cadere mai nella trappola della caricatura. Il tutto per ricordarci, in modo anche diretto, quanto avesse ragione Goldoni e come fosse abile nel fornire “morali della favola” senza salire sul piedistallo, facendo ridere lo spettatore anche di se stesso.”
(Maria Lucia Tangorra, www.teatroespettacolo.org)
“Il disincanto della società che nasce in Goldoni e si amplifica nell’era del digitale e della vita costantemente sbirciata dalle telecamere. Una sintesi spietata la regala don Marzio – scacciato con ignominia per aver detto troppo e goduto nel mettere zizzania – mentre lascia una città di adulteri, malati di gioco, persone piccole, avare e affamate di mostrarsi, che ormai non hanno più nulla, eppure, chiosa ironico, «dove tutti sono felici».”
(Chiara Palumbo, www.artapartofculture.net)
“Lo spettacolo è brillante, veloce e spesso strizza l’occhio a una rivisitata commedia dell’arte in cui si indulge parecchio al mondo, per nulla residuale, della clownerie. Gli attori […] sono ben coordinati e attentissimi ai tempi scenici. Diego Runko, nel ruolo di spalla pronto a sostener battute a tutti i compagni di scena, dà vita a un caffettiere Ridolfo severo e bonario al contempo, Giovanni Gioia dà un’eccellente coloritura al “molesto”, decaduto gentiluomo napoletano Don Marzio, proponendosi anche in atteggiamenti opportunamente macchiettistici quasi da comico/chansonnier d’avanspettacolo di tempi andati e il suo tormentone di convertire zecchini in euro e vecchie lire strappa più di una risata. Il ruolo di Flaminio/conte Leandro è interpretato da un divertente, scatenato e ginnico Marco Pezza, che ripetutamente cade e rimbalza ad ogni rumor di ceffone, un clown cascatore di buona scuola. Brava è Valeria Sara Costantin nel ruolo di Vittoria, moglie di Eugenio, ed è spassoso e quasi un cammeo il suo tentato suicidio con tanto di sangue sparso all’in giro, presentato con spigliata e disinvolta mimica. Un applauso meritato va a Valentina Scuderi per il doppio ruolo di Lisaura e Placida se non altro per il “dialogo” tra le due donne in cui usa il vecchio trucco, ancora d’avanspettacolo, di indossare sul lato destro il tutù della ballerina Lisaura e dall’altro il saio della finta pellegrina Placida. Una rivisitazione coraggiosa ma con risultati più che soddisfacenti. E divertenti.”
(Adelio Rigamonti, www.sonda.life)
“(…) qui è difficile scegliere un attore che risalti sugli altri: ognuno esprime un livello recitativo altissimo. (…) La Confraternita del Chianti, senza voli pindarici né pretese sociologiche, indaga una varietà di caratteri, passioni e avvenimenti umani. Si muove con deferenza nel teatro goldoniano, che è sempre trascrizione del contemporaneo. Procedendo per sottrazione, focalizzandosi con leggerezza sul problema del gioco d’azzardo, confeziona uno spettacolo che è pittura mobile e viva, lingua concreta e reale che miscela varie parlate regionali.”
(Vincenzo Sardelli, Studi Cattolici)